LA FINE DELLE IDEOLOGIE (DEGLI ALTRI)
Marta Mancini 18-04-2024
La nostra epoca non è certo contrassegnata dalla fine delle ideologie, dopo che, sbaragliata la concorrenza, la grande narrativa del pensiero unico gode di ottima salute; c’è invece da esitare sull’inconsistenza della tesi di Fukuyama della fine della storia giacché quella del mondo occidentale sembra aver trovato nel capitalismo un ancoraggio talmente saldo da impedire il benché minimo sommovimento capace di metterne in crisi gli ingranaggi. Anzi, il non funzionamento dell’attuale versione ultraliberista del capitale favorisce il rilancio dello stesso modello con una posta sempre più alta di crisi ricorrenti e acute ma mai in grado di dissolverlo.
In un passo della celebre Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica, Marx sosteneva che «il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti … eallora subentra un’epoca di rivoluzione sociale».
Nonostante le macroscopiche contraddizioni e le mancate promesse di emancipazione e di benessere per l’umanità intera, la natura proteiforme del capitalismo lo ha preservato finora da una rovinosa caduta, fino ad ammantarlo di uno statuto ontologico di tatcheriana inaggirabilità. Se con ciò sia finita la storia o se non sia ancora giunto il momento di una svolta epocale rimane una questione aperta mentre non lo è la cruda constatazione che in questo nostro tempo ad essersi fermato è il movimento del pensiero.
Questa convinzione ispira il titolo dell’ultimo libro di Davide Miccione, da poco uscito presso Transeuropa, “Quando abbiamo smesso di pensare. Scritti di fenomenologia dell’emergenza (2020 – 2023)”. Il volume, con la bella prefazione di Alberto Biuso, coautore anche del capitolo finale, si compone con la raccolta di alcuni articoli pubblicati in parte su Aldous e altri su Avanti! e che la veste cartacea restituisce in un insieme di tangibile valore aggiunto. Ciò che il web frammenta e volatilizza acquista forza nell’ostensione copiosa di aspetti osservabili della realtà che lo sguardo del filosofo, studioso di antropotecnica e di pratica filosofica, ricostruisce attingendo allo strato operativo profondo dell’attuale organizzazione sociale. Della società emerge infatti il corpo vivo fatto da individui in carne ed ossa con i quali condividiamo ogni giorno spazi pubblici e privati, luoghi di lavoro e del cosiddetto tempo libero; coloro insomma che, assillati dalla fame di tempo, hanno rinunciato a farsi domande su di sé e sul mondo e a farne oggetto di discussione pubblica.
Ne abbiamo fatto esperienza diretta durante la pandemia quando il normale scambio di idee su cosa stava accadendo si è trasformato nel tribunale per separare i propri simili tra i buoni (cioè, gli obbedienti) e i cattivi cittadini (non solo i disobbedienti ma anche i dubbiosi, i riflessivi, i ragionatori in proprio, i coerenti assertori dei diritti fondamentali e gli oppositori seriali che però allenano la capacità argomentativa degli avversari). Chi si trovava a far parte della minoranza dei perplessi, ad un certo punto, deve aver avuto la sensazione straniante di trovarsi in mezzo a degli alieni dalle sembianze familiari ma irriconoscibili per come il loro “pensiero” si mostrasse, senza alcuna rielaborazione, disancorato dalle convinzioni dichiarate fino al giorno prima riguardo alle libertà individuali, al diritto di non essere d’accordo, ai diritti sociali insopprimibili, alla protezione di tutti i princìpi costituzionali e via dicendo. Veicolato dall’ossessione immunologica il liberalismo autoritario, in un volgere rapido, era diventato nella mente dei più la forma compiuta di democrazia.
Dalla constatazione di questa macroscopica quanto misconosciuta evidenza nasce la domanda che fa da cardine alle diverse angolazioni con cui Miccione mostra con puntualità e more geometrico la connessione tra gli aspetti ordinari della vita – con tutto ciò che le dà forma (o che le manca) – con la cornice più ampia dell’emergenza mai interrotta dopo l’esperimento pandemico, sullo sfondo di un capitalismo minaccioso e colpevolizzante.
“Perché qualcosa di così grave viene ignorato? Perché una civiltà in picchiata come un aereo in panne si mette a discutere se sia il caso di ritinteggiare gli interni del velivolo e non della perdita di quota? La risposta, per inciso, è la stessa anche alla domanda: ‘perché tutto ciò sta accadendo?'”. (p. 37) È appunto questa la domanda che ricorre nelle pagine del libro e che racchiude l’interrogativo ancora più radicale di quale idea di uomo è subentrata nell’immaginario collettivo, ammesso che ancora si dia la pensabilità di cosa noi siamo.
Non è sufficiente spiegare ciò che è accaduto e accade alle nostre vite ricorrendo a ragioni di ordine esclusivamente economico poiché “è innegabile che una nuova antropologia umana sembri emergere dinnanzi a noi, un nuovo sistema di valori, una nuova fede nell’ordine del mondo e che sia necessario coglierne il profilo e gli scopi” (p. 34). Dalla ricostruzione di Miccione si comprende con chiarezza che la società è tutt’altro che liquida, che il disordine è solo apparente e che nel gattopardesco nuovo assetto ogni cosa, del pubblico (di facciata) e del personale (di quel poco che rimane), viene fatta convergere in un sol pensiero.
Da un lato, dunque, troviamo il mutamento del capitale nel passaggio dalla logica tradizionale della massimizzazione del profitto all’inclusione di questo obiettivo in quello più ambizioso della riscrittura della convivenza umana. Dall’altro la sottomissione volontaria degli individui alla pseudolibertà della “rete”, instrumentum regni, che non li ha resi né più liberi né più felici e ciononostante indifferenti all’evidente disfacimento della democrazia di cui non sanno riconoscere i segnali del suo scempio: la perdita cioè di alcuni importanti prerequisiti quali “cultura, libera informazione, leggi di protezione dal capitale, sicurezza economica, diritto del lavoro, memoria storica, attento soppesamento dei rischi della digitalizzazione, vigilanza nei confronti di istituzioni politiche non democratiche e catafratte da una sedicente scientificità come l’OMS, terzietà degli organismi di controllo, libertà d’opinione, rifiuto della sedicente neutralità della tecnologia, difesa della costituzione. Tutto questo ben si tiene insieme se solo si ha l’onestà di guardare.” (capitolo IX). Questa cecità volontaria, questo non voler sapere di una parte ampia di persone non ha il sapore di una resa dolente di fronte alla potenza di fuoco del capitale; emerge, al contrario, una complicità che trova la propria cifra anche in alcune posture per l’appunto di marca progressista.
Il reiterato tradimento dei chierici, con poche luminose eccezioni, ha dato i suoi frutti anche in quella parte della società sufficientemente acculturata, almeno sulla carta, per essere in grado di intercettare le tendenze autoritarie che la pandemia ha prima svelato e poi accelerato, irrobustendo la sovrastruttura del terzo millennio con i pilastri del politicamente corretto e dell’antifascismo in assenza di fascismo, per dirla con Costanzo Preve. Su questo secondo aspetto vale la pena citare ancora un passo di uno dei capitoli più brillanti del libro di Miccione: “In crisi di pensiero e di storicità una buona parte delle persone … riesce a vedere l’illibertà solo se la trova taggata in modo tale da poterla associare a qualcosa che gli hanno insegnato essere ‘dittatoriale’ … Senza il tag non è in grado: vedrà gente protestare ma non sarà popolo, vedrà individui subire ma penserà sia giusto così giacché nel suo database (quello che un tempo addietro sarebbe stata una mente) non ha trovato nulla con cui collegare il dato … Il database è aggiornato evidentemente fino agli anni Cinquanta. Come fare a capire? (p. 102) Circostanza questa che impone un’integrazione di ordine temporale all’idea gramsciana di cultura: alla capacità di comprendere la vita, di prendere posizione e di relazionarsi da cittadini con gli altri uomini va aggiunta quella di “contrastare concettualmente, almeno per se stessi, la morsa della contrazione del presente” (p. 108).
La dittatura del presente altro non è che il dispositivo di livellamento necessario alla formazione dell’uomo nuovo, l’ideale antropologico che ogni autoritarismo ha sognato di realizzare. Il tipo contemporaneo occidentale è un individuo privo di storia, sradicato dalle tradizioni, deprivato del proprio idioma, svincolato dall’idea di qualunque limite biologico e preferibilmente ibridato con la macchina a cui vorrà sempre più assomigliare. È un individuo globale, un non-individuo. La potenza del calculemus ha bisogno di una realtà semplificata, uniforme e algoritmicamente manipolabile che la tecnologia digitale garantisce, dopo aver superato l”imprecisione’ della precedente versione analogica. Ma è una potenza che può sfidare solo la quantità, per quanto si sforzi di ridurre allo stato di tracce inerti anche le forme dello spirito, l’anima, la coscienza o, in qualsiasi altro modo si voglia chiamare, l’aura che rende unica e irriproducibile ogni persona. Dunque se per il sistema dominante questo è il pericolo (“per il potere il problema non è chi sei ma cosa pensi”, p. 79) vuol dire che proprio dal pensiero, l’attività umana per eccellenza, bisogna ricominciare.
Il dato fenomenologico mostra, tuttavia, che l’area del dissenso formatasi contro la politica pandemica non si è consolidata in un nuovo soggetto portatore di istanze trasformatrici profonde della società. La contraddizione di cui parlava Marx non è maturata abbastanza da canalizzare la protesta di parte della società civile nella consapevolezza che quella stagione non è stata momentanea ma paradigmatica di ciò che i decisori politici sono disposti a fare in ossequio al grand commis del momento. È mancata da parte dell’area critica degli intellettuali la costanza di proseguire nel lavoro di costruzione collettiva di un pensiero nuovo e coerente, capace di smascherare la fandonia dell’emergenza, mostrando il calibro strutturale di ciò che stava accadendo alle nostre vite; è mancata l’immaginazione di un’antropologia (questo è il faro!) significativamente diversa da quella imposta dall’ipercapitalismo digitale su cui tutto il sistema di accaparramento privato della ricchezza si regge. Ricominciare a pensare, certo, ma collettivamente poiché il lavoro culturale, o è collettivo e adeso alle vite concrete delle persone o non è. In caso contrario si dovrebbe riconoscere che ad essere mancata è la comprensione da parte delle leadership politiche antisistema del ruolo a cui sono chiamate in questa fase storica.
Pezzo originariamente uscito su Aldous
Iscriviti alla nostra newsletter per restare sempre aggiornato sulle ultime pubblicazioni e sulle promozioni!