Recensione a Diario degli amori difficili

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Il “Diario degli amori difficili” di Giacomo Sillari non contiene dati biografici e non è neanche una forma di autobiografia parziale limitata ad alcune storie d’amore: è un esercizio di critica letteraria.


Il libro è composto da sei capitoli, che vorrei chiamare “quadri”, i quali finicono tutti con una poesia – o una cosa del genere. Lo statuto della poesia, cioè ciò che la distingue da altre forme letterarie, è molto mutato nell’ultimo secolo e tuttavia è ancora riconoscibile nelle parti finali dei sei capitoli in cui è diviso il libro. Con “una cosa del genere” voglio appunto dire che quelle parti dei quadri sono riconoscibili come “poesie” per quanto non sottostiano – o non completamente – allo statuto classico dei versi. Ma in verità, l’unica cosa a cui non sottostano è la scansione rimica poiché non sono mancanti totalmente né le rime né altre forme di ripetizione come l’anafora – fitta. E, per la verità, anche la scansione sillabica, per quanto molto variabile, prosastica, non è per nulla casuale: viene in mente l’incipit di “Una stagione in inferno” di Arthur Rimabaud – che l’autore ha evidentemente letto – o la regola di Allen Ginsberg sull’estensione del verso che deve durare quanto l’estensine del fiato. I versi di Giacomo Sillari hanno fiato, e questa caratteristica dipende dal’ignorare – più o meno volutamente – lo statuto classico della poesia.


I sei quadri sono dipinti intorno ai versi, ne rappresentano una sorta di interpretazone secondo l’esempio sommo de “La vita nova” di Dante Alighieri a dimostrazione che l’autore non è all’oscuro del classicismo della tradizione letteraria italiana. Tracce ce ne sono non solo nella struttura dell’opera ma anche in dettagli specifici seminati all’interno della tessitura dell’opera: uno su tutti, il Werther di Goethe.
Ogni quadro tratteggia una stroria: se vogliamo dire d’amore va bene, è una approssimazione accettabile ma non è esatta alla lettera. Le descrizioni, le storie, i quadri sono descrizioni, storie, quadri fondamentalmente interiori. Certo che ci sono dati realistici, perlopiù d’ambienti, ma servono a creare lo sfondo sul quale non si muovono personaggi – che sono essi stessi “ambienti” – ma passioni, sensazioni, pensieri. E sono quelli la tessitura sulla quale si cuciono i versi.


Se è vero, com’è vero, che “In principio era la Parola” (Giovanni 1, I), all’inizio di ogni quadro ci sono i versi. Diciamo, in soldoni, che il protagonista del libro (l’autore stesso) vive delle storie dopo le quali, per una esigenza espressiva, ha la necessità di mettere in versi quell’esperienza.È una esigenza di completezza: quando i rapporti finiscono si ha infatti spesso la sensazione di… “non aver detto tutto”, che qualcosa – in quelle storie finite – sia e resti inespresso. È per chiudere quel cerchio che i versi chiedono prepontemente di essere vergati. Le prose che precedono i versi ad ogni capitolo servono appunto a spiegare la fonte emprica che sembra essere in “quella storia”; la storia in prosa narrata nel quadro è l’origine da cui nasce la posia che chiude il capitolo e, in qualche modo, la spiega in forma razionale e comprensibile, distesa là dove nei versi è criptica, irrazionale, succinta.


Il fatto è che in realtà spiega ben poco – ed è questo, a me pare, il concetto che informa tutta l’opera: le passioni non sono spiegabili, intellegibili. Ci sono e basta e per questo mi pare di dover usare il termine “quadri” invece di capitoli: è come disegnare un paesaggio che c’è a prescindere ma il cui significato ci sfugge. Dipingere il paesaggio è in qualche modo un tentativo di spigarlo, di dargli un senso che non ha. Però è questo che sono le vite: un paesaggio che un senso non ce l’ha. Farne un “diario” è appunto cercare quel senso. Il “Diario degli amori difficili” è formato di sei capitoli ma potrebbero facilmente essere moltiplicati o divisi perchè noi comunque, nella modernità, percepiamo le nostre biografie come appunto insensate, perchè così e questo sono: un puzzle di cui noi abbiamo in mano tutti i pezzi ma non sappiamo come comporre un quadro unitario e non sappiamo nemmeno se davvero vada composto. I sei quadri di Giacomo Sillari sono i pezzi del suo puzzle. Sappiamo che il quadro va composto, che il senso ci dovrà pur essere perché quello che ne rimane senza motivo apparene sono quei versi finali di ogni capitolo che in realtà sono il motore del libro. La domanda alla quale il libro cerca di dare risposta è: perché ci sono questi versi che prima non esistevano e poi si e li ho scritti io?


L’autore crede, razionalmente, di aver risposto – altrimenti il libro non sarebbe ancora stato pubblicato – con le storie narrate, con il tema dell’amore: questo è quello che dice eplicitamente anche nell’introduzione: “Scrivo di donne (…)”. Ma non scrive di donne: scrive di solitudine. E la risposta al senso delle cose non sta dove Giacomo crede – nelle storie – ma in quello che dice Giovanni 1, I: “In principio era la Parola”. Detta al modo del “Diario degli amori difficili”: “Venite parole (…) / salvateci dalle nostre vite”.

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