Recensione a La ricostruzione di parigi di Paolo Gera

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 La brossura, sobria, col titolo defilato in alto, mi ricorda quella dei testi, discreti ed argomentativi, spesso filosofici, degli anni 70-80: le immagini hanno rifuggito la copertina per annidarsi nelle parole.

 Non è un saggio, ma ne ha la valenza. Non è poesia, ma ne ha la “grave levità”. Non è una guida, ma si conosce Parigi. Non è un diario ma il flusso è quello immediato della coscienza, con i suoi rimandi e le sue tessiture. Non è una biografia, ma Paolo Gera si svela. Soprattutto svela come i “tempi della presente guerra” siano uno spartiacque tra una finta pace e una guerra dichiarata, tra il dogma e il libero arbitrio, tra un’umanità resistente e una “resiliente”, tra luoghi ancora percorribili e altri divenuti inaccessibili.

 Un resoconto della continua osmosi uomo-ambiente, dove l’organismo tutto – corpo, cervello, cuore – immerso negli stimoli, si nutre di arte, architettura, stile, letture, contatti, producendo a sua volta riflessioni e spunti, con strategie ora di assorbimento ora di fuga, qualora la situazione, la soluzione si direbbe in chimica, si faccia ostile. La guerra arriva con “Questo”, aggettivo dimostrativo che si sostantivizza, con l’iniziale maiuscola, a sottolineare l’evidenza di qualcosa che non ha bisogno di presentazioni e spiegazioni. Lasciando che ognuno interpreti a suo modo l’aspetto medico-scientifico tanto della proclamata pandemia quanto dei sieri e dei tamponi imposti, resta incontrovertibile il peso schiacciante delle decisioni politiche e della generale indifferenza, con restrizioni assurde e gravi lesioni dei diritti: Gera parte da lì, dalla sua esigenza di libertà, insopprimibile come l’ossigeno.

“Penso all’Italia, appena dietro le nubi e ancora così lontana. (…) Se ho deciso di scrivere su Questo e sulla presente guerra, l’ho fatto perché avevo la possibilità di emergere in un altro luogo dove potessi analizzare con meno rabbia e maggiore lucidità tutto quanto stava succedendo nella mia povera provincia.” (pag. 95). “Sono stati pochissimi a esprimere solidarietà a chi veniva negato il diritto a faticare e a mantenersi.” (pagg. 96-97).

 Lo spaesamento si allarga dalla sbigottita presa d’atto di un sovvertimento di abitudini, valori e persino, come fitta dolorosa, degli affetti (“Ma non eri mio amico? Non abbiamo sudato fianco a fianco per anni e anni?”) per approdare all’amara pianificazione di una fuga, alla rescissione coraggiosa delle radici:

“(…) progettiamo di riedificarci all’estero, come è già successo in altri periodi storici a reietti che ben più di noi rischiavano oltre alla requisizione dei beni, anche quella dei corpi e delle vite. (…) passiamo in rassegna agenzie immobiliari parigine per trovare una collocazione accettabile se qui il rischio di soffocamento delle libertà civili diventasse troppo elevato. La storia insegna. Bisogna essere bravi a non farsi trovare impreparati e pronti a partire senza voltarsi indietro” (pagg. 103-104)

 E allora inizia a respirare Parigi come in una crisi ipossiemica: “La carta acquisita (il pass da tampone, ndr), come l’elargizione della libertà a chi in età feudale passasse dalla campagna alla città, mi dà la concessione del tempo e dello spazio e la voglia pazza di approfittare di ogni ora e di ogni occasione.” (pag. 50).

 Musei, cimiteri, vetrine, ristoranti, musiche, letture: tutto entra negli occhi, nel respiro, nel battito vivo che Gera ci restituisce, senza filtri, nell’immediatezza di una connessione continua tra sé e il fuori, ma soprattutto con se stesso. Perché Gera è un poeta. Da poeta pensa e da poeta combatte.

“Ai tempi della presente guerra io sto molto con un gruppo ristretto di persone: (…) rispondendo agli attacchi durissimi di chi ci ha individuato come avversari, la vicinanza virtuale si è trasformata in resistenza e piccola lotta.” (pagg. 84-85).    “A inizio dicembre, come risposta per nulla ragionata, ma del tutto istintiva e viscerale, al decreto che stabiliva l’obbligatorietà del supergreenpass (…) noi abbiamo fondato il gruppo Fissando in volto il gelo – Poeti contro il green pass. (…) Nel gruppo convivono convinzioni ideologiche anche opposte, ma (…) siamo uniti dallo stato di necessità. (…) Stiamo riflettendo che essere compagni significa esporsi insieme. (…) Non si è trattato di contrastare in modo semplicemente oppositivo la narrazione ufficiale di Questo e i rinforzi quotidiani di un’informazione becera e asservita, ma di proporre attraverso la scrittura poetica un nostro racconto alternativo. Loro dispacci autoritari, noi poesie. Loro commenti volgari, noi poesie. Loro discorsi menzogneri, noi poesie. Loro unica versione, noi poesie.” (pag. 89).

 Gera non si propone di dispensare ricette e non elabora strategie di univoca risposta alla spirale costrittiva del leviatano risvegliato: ci richiama al senso delle cose, alla profonda intenzione delle scelte, alla coerenza con i propri princìpi e il proprio linguaggio: “Varietà e complessità, coscienza ed emozioni. Poesia. Non zero e non uno.” (pag. 89). E la decisione, anzi la necessità, ad un impegno e una testimonianza non cancellano mai interrogativi, autocritica, consapevolezza tanto delle potenzialità quanto dei limiti.

“Affermiamo che la nostra comprensione delle cose è ignorata da una maggioranza schiacciante, da due anni pensiamo di sostenere con lo sguardo la luce accecante della verità, ma quella che riteniamo una sincera testimonianza è percepita come una distorsione della realtà, un’allucinazione. (…) Tutti vivono in una specie di letargia scossa da qualche tremito, prodotta dall’acquiescenza e dall’abitudine alla vita comoda e sicura. Ognuno è convinto che ne valga la pena, che le ore e gli anni spesi così non abbiano alternativa, anzi vadano tutelati e siano preziosi. Un cane lecca la mano a chi allunga anche solo di un anello la sua corta catena. Ecco, noi non sappiamo se siamo randagi senza collare e piastrina di riconoscimento o semplicemente dei finti selvaggi da compagnia, già ibridati con i domestici, a cui viene concesso di sgambettare per dieci minuti in cortile, prima di essere ricondotti alla comune prigionia. L’illusione della libertà: alzare la zampa per pisciare in un angolo scelto da noi, abbaiare alla luna, mostrare i denti un attimo senza mordere e senza lasciare un segno. Eppure si spera che qualche traccia lasciata nel fango si solidifichi e possa essere seguita, chissà.” (pag. 90).

 E tuttavia la mobilitazione resta imprescindibile fortino di difesa, auspicato ardimento degli arroccati, esempio memorabile di una minoranza nobile nelle ragioni e nei metodi, voce catara inarresa ai roghi già pronti:

“Forse quello che conta, poeti, è prendere slancio l’uno dall’altro in una situazione di minaccia e il gruppo rappresenterebbe una tensione forte che non può essere fermata. Si intercetta la freccia, la si spezza prima che colpisca il bersaglio, le si smussa la punta: l’aria che viene smossa nel tragitto nessuno riuscirà a fermarla. Ecco, questa metafora è la formulazione provvisoria della mia lotta collettiva sotto l’egida della poesia.” (pag. 91).

 L’inquietante svolta storica, che ci vede testimoni (e sventurati protagonisti) dell’incedere di un neo-feudalesimo deciso a bandire ogni autodeterminazione sul corpo e sulla mente, genera inevitabili interrogativi sulla sorte dell’umanità, con tutto il suo bagaglio materiale e immateriale: interrogativi non di riuscita soltanto, ma di salvezza.

“Questo nostro attaccarci con tutto il vigore che abbiamo, e una lacrimuccia per lubrificante, ai nostri idoli letterari! Il non voler ammettere che si è trattato di un periodo nemmeno troppo lungo – un soffio, a dire il vero – nell’evoluzione dell’umanità. Tutti i libri e i loro autori memorabili saranno spazzati via e nessuno saprà mai che sono esistiti. Non esisterà più una sola biblioteca, sparite per sempre le storie della letteratura e le antologie scolastiche. Ci saranno altri scrittori e altri libri, che si consumeranno però nello spazio di uno struscio di carta di credito. L’effetto trovata, l’effetto sorpresa, l’effetto mai visto prima, forse il libro metaverso: ecco quello che verrà sdoganato dalla nuova letteratura tik-tok! Ma un bambino tutto preso dal suo inestimabile gioco, si accorge forse che il tempo sta passando e che sarà richiamato fra poco ai suoi doveri scolastici e ai suoi primi investimenti bancari? Divertiamoci, allora, noi che siamo l’ultima infanzia dell’umanità, con i nostri bambolotti e i nostri soldatini. Se gli si schiaccia il pulsante sulla pancia, come parlano bene! Se gli si dà la corda, come camminano dritti! Illudiamoci, forza, che un poeta abbia ancora senso e profondità e riesca a esprimere emozioni, a liberare visioni che sentiamo come le nostre, a dipanare gomitoli d’assurdo che per noi rimangono un groviglio. Giochiamoci davvero e appassioniamoci ancora per un’ora, perché su tutto fra poco calerà la sera, i fogli diventeranno cenere, i file subiranno la cancellazione definitiva.” (pagg. 48-49).

 E quale luogo di assolutezza, di peregrinazioni escatologiche, di postulazioni morali meglio di un cimitero può farsi porto dei nostri smarrimenti, ancorare al riparo della mercificazione la procella di uno sconforto inesprimibile o di un sentimento inatteso?

“A Montmartre io piango sulla tomba di Stendhal (…). Ha voluto che sulla lapide fosse scritto in italiano: «Qui giace Arrigo Beyle, milanese». Piango per questa determinazione a voler precisare un’appartenenza sentimentale, opposta alla biografia, come se invece di «L’amata moglie e i parenti posero», fossero scritti sulla lapide i nomi delle tenere amanti con cui un uomo condivise letti e prati. Si piange per uno scarico di tensione: è come se si fosse arrivati al limite dalla città dei vivi, alla sua prescrizione finale, al suo estremo segno comunitario e se, per ragioni personali, il carico emotivo è diventato insostenibile, qui si piange, come sulla spalla di un amico o di un fratello. Il dolore al Père Lachaise si riveste di una doratura cercata per giorni tra la folla anonima e nello sfogo si generano lacrime che invece di bagnare il viso lo lavano e lo profumano. Il soffiarsi il naso non si manifesta più come un fastidioso barrito, ma come la prima nota di un valzer di Chopin. Tutti iniziano a ballare sui vialetti di ghiaia, gli sconosciuti si presentano alle sconosciute e afferrata la mano già levata nell’aria, si inizia il giro di danza, sotto i cipressi o fra le aiuole fiorite. I morti intorno osservano silenziosi e uno starnuto fragoroso ricorda veramente loro il rimpianto per le musiche più belle ascoltate in vita. Vorrebbero starnuti in ogni angolo del cimitero, dopo una pioggia di lacrime o per allegria, cosa gliene importa, basta sentire qualcosa di vivo.” (pagg. 46-47).

 Sì, Paolo, ora scalo marcia dalla terza persona singolare per passare alla seconda: siamo, concordo, “l’ultima infanzia dell’umanità”; l’infanzia capace di vedere nudi tutti i ridicoli re di questa truce farsa, l’infanzia che si ricorda cosa significhi scoprire, confrontare, giocare senza barare, amare di un amore sacro senza necessità di sacramenti. Ti fa eco Paul Celan, che ti è caro: “I poeti: gli ultimi custodi delle solitudini”.

 Siamo, su questo crinale millenaristico affacciato, da una parte, su un passato di falsa libertà e, dall’altra, su un futuro di conclamata schiavitù, gli occhi aperti e le mani operose che, come amanuensi, sanno di dover consegnare al domani un’idea ancora vera di uomo, di umanità.

 E rileggere, re-interpretare, è il lavoro imprescindibile di questa preservazione; una necessaria correzione delle distorsioni storiche che incrostano la verità dei fatti: una riscoperta che arricchisce il nostro atto di custodia in un percorso di esplorazione e, spesso, di meraviglia.

 Sapere la disfatta così pericolosamente vicina vivifica ogni gesto, ogni sentimento: il senso stesso dell’esistere, che s’indaga con rinnovato interesse, quasi con fervore. Dobbiamo capire, dobbiamo proteggere. Significare. Sotterrare, se serve, casse zincate piene di libri e parole da tramandare, da far scampare a questa guerra sui corpi e sulle menti. Fatica come vocazione, amore come rituale sacro, lacrime come pausa rigenerante. Rivoli d’acqua pulita sui volti impolverati e stanchi. Baci salati.

 I poeti, Paolo, tu dai prova di saperlo già, non piangono: si commuovono soltanto.

Articolo di Sara Lunghini per Liber Aliter, 14 Luglio 2024

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