Materia prima / Le installazioni di Sergio Oricci
È uscito per Transeuropa Edizioni, storica casa editrice che si è sempre distinta per la sua attenzione verso il nuovo, l’inedito, il diverso e il non catalogato in ambito narrativo, quello che – senza timore di essere smentito – ho definito il romanzo più importante degli ultimi cinque anni: Materia prima di Sergio Oricci, di cui a dicembre abbiamo pubblicato un estratto per la nostra rubrica di racconti After After su «Neutopia». Essendo da sempre alla ricerca di cosa possa accadere dopo la fine del postmoderno, ha avuto perfettamente senso che il libro di Oricci – autore tra i più visionari e sperimentali in circolazione in Italia, che da diversi anni ha scelto di vivere a Cluj-Napoca, in Romania – trovasse su queste pagine la sua naturale collocazione, così come ha perfettamente senso recensire la “cosa in sé”, vale a dire il suo testo, su Noumeno.
A metà tra la narrativa e il romanzo meta-teatrale, Materia prima prende forma come una serie di installazioni: si misura con l’arte contemporanea e la mette in gioco letterariamente, dialoga con essa senza timore di reggere paragoni – come nel capitolo dedicato alla “Fisica del tennis”, in cui il protagonista, Sergio, vorrebbe sezionare il gioco di Roger Federer alla stessa maniera in cui Bill Viola seziona il Pontormo nella sua installazione, Ascensione.
Una duplice crocifissione, quella di Oricci: la prima, nel volersi automaticamente porre sullo stesso piano dello scrittore che più di ogni altro ha reinventato il postmoderno, portandolo alle estreme conseguenze, David Foster Wallace, quando sa bene che scrivere di Federer, dopo Il tennis come esperienza religiosa (2006), non sarebbe più consentito a nessuno; e in secondo luogo, perché la sua è un’analisi al rallenty, praticamente una vivisezione, della crisi dell’uomo contemporaneo.
In questa sua audace analisi, Oricci non fa sconti a nessuno, nemmeno a se stesso: mette in scena le proprie fragilità, attraverso lo specchio deformante di schermi e dispositivi che aprono a una serie di strade e premesse che possono sembrare apparentemente discontinue, ma in realtà convergono tutte in un unico punto.
Nel primo capitolo che compone il testo, Niente addosso, Sergio ammette di essere in crisi con sua moglie, e proprio per questa sua eccentricità da maschio cis-etero che fatica a trovare una dimensione nel mondo attuale, compie una serie di piccoli “gesti performativi” – come li chiama lui – che spingono la moglie a disseminare il loro appartamento di telecamere, per provare agli altri di avere a che fare con un uomo malato. Impossibile non pensare alla società del controllo presagita da Deleuze, che non si accontenta più di sorvegliare e punire, come scrisse Foucault, ma anche di prevenire l’errore, con un margine di calcolo estremamente ridotto.
Infatti, nelle società del controllo, il rizoma la fa da padrone: non esiste più tempo libero, tutto viene messo a profitto, le nostre vite sono costantemente monitorate dal potere, ma non nel senso di un Grande Fratello orwelliano che spia e reprime, bensì un potere estremamente soft, come ne Il mondo nuovo di Huxley (1932), il quale aveva intuito che la popolazione, attraverso droghe e selezione genetica, si sarebbe sottoposta volontariamente alla schiavitù, accettando questa condizione come un male minore tutto sommato ammissibile rispetto alla barbarie della mancanza di civiltà. Se nel testo di Oricci non assistiamo propriamente a un orizzonte di questo tipo, vi sono una serie di elementi, tra il grottesco e il satirico, che avvicinano il protagonista di Materia prima al paziente prototipo del Grande ospizio occidentale di Eduard Limonov (1993), che ripete, quasi a giustificarsi: “Non sono un uomo malato; sono un uomo in crisi.”
Sergio è un uomo ordinario: insoddisfatto del suo lavoro, tenta di convivere con i suoi traumi e di rendere la sua esistenza qualcosa di più di una placida vita borghese, nel percorso casa-lavoro-casa a cui sembra destinato dalla solita routine; a volte si accontenta di piccole soddisfazioni senza scopo, come farsi massaggiare e masturbare da Alina, pagare il dovuto e tornare alla culla domestica, teatro di incomprensioni sempre maggiori con sua figlia Corina e Spike, il suo cane.
A volte diventa quasi una tragica stand-up: nel gioco delle parti, in un meccanismo che ricorda alcuni esempi cinematografici recenti, come Annette di Leos Carax, tutto – anche i dialoghi più brillanti e le incursioni del pubblico – fa parte del testo, è in qualche modo prescritto, come le accuse di “logorrea verbale”, di essere un pessimo padre e un marito assente, mentre Sergio, rimasto da solo sul palco sotto l’occhio di bue, esulta: “Finalmente mi sono licenziato, diomadonna.”
Del resto, come sosteneva Wittgenstein, nulla accade al di là del linguaggio o all’infuori di esso.
Nel secondo capitolo, Denti perfetti, abbandonati il suo impiego e la sua famiglia, Sergio va alla ricerca di un’esperienza spirituale che possa cambiargli la vita. Inizialmente scarica un’applicazione chiamata Lumen-U e la mixa con video musicali e fiumi di gong per ottenere un’alterazione di coscienza; successivamente va alla ricerca di guru psichedelici che gli facciano sviluppare i suoi “Poteri Extrasensoriali” – e qui c’è più di una frecciatina a tutto il mondo del rinascimento psichedelico “new age”; infine va da un dentista, per dotarsi di denti perfetti e trovare così la sua dea – ospitata da una ragazzina della stessa età di sua figlia – nell’Oasi, sorta di comunità religiosa simile a Scientology, dove arcangeli e dorati vivono in un’armonia forzata e stucchevole, guidati da un Io onnipresente e autoritario.
Questa seconda parte lo avvicina addirittura al Yorgos Lanthimos più crudo e antiretorico di Kind of kindness, laddove il protagonista – ora chiamato semplicemente l’Uomo – non sembra trovare altre vie d’uscita, se non vivere scabrosamente il suo desiderio.
Nel terzo e ultimo capitolo, Materia prima, viene lasciato molto spazio alla descrizione. Non potendo raccontare a nessuno quel che ha vissuto, l’Uomo conosce la pratica del silenzio, tenta di fuggire dall’Oasi in autostop ma si ritrova intrappolato su una spiaggia deserta, fino a ricongiungersi con l’elemento naturale, con la materia prima di tutte le cose.
Tutto fuorché esclusivamente citazionista o di maniera, l’opera di Oricci tende a utilizzare sulla pagina lo stesso filtro che Foster Wallace impiegò con la televisione, nell’era di internet. Tempo fa ebbi modo di discutere con l’autore fiorentino dell’impossibilità di emergere, per la grande letteratura, a prescindere dai contesti che l’hanno creata. Probabilmente oggi siamo distratti da troppi input, sia visivi che sonori, per concentrarci su un’opera come Materia prima senza esserne scossi e infastiditi al contempo, proprio perché gli “schermi” sono divenuti eccessivi, i controllati si sono trasformati nei controllori e forse, anche per questa sua natura di volersi ergere come un’opera puramente letteraria, materia prima che si espone, nel caos primigenio che attanaglia le nostre vite, per farsi guardare.
Il testo di Oricci andrebbe studiato come l’ultimo caso di un romanzo postmoderno, in un contesto editoriale che di postmodernismo non sembra volerne più sapere; osservato da vicino e – cambiando più volte prospettiva – riconoscere in esso uno specchio riflettente, nella stessa maniera in cui capovolgere un oggetto può farcelo guardare da un’angolazione insolita e farcelo apprezzare, come solo la grande letteratura è in grado di fare.
di Davide Galipò, Neutopia, 11 Luglio 2024
Iscriviti alla nostra newsletter per restare sempre aggiornato sulle ultime pubblicazioni e sulle promozioni!