L’orologio poetico di Sergio D’Amaro
ETTORE CATALANO 13 Marzo 2023
Sergio D’Amaro, uno degli intellettuali più innovativi e propositivi della nostra letteratura e non solo del territorio in cui opera, è autore di numerose raccolte poetiche, romanzi, biografie letterarie, giornalista e responsabile del Centro Studi “Joseph Tusiani”, per il quale dirige la rivista Frontiere. Pubblica ora (2022) una singolare silloge, Sala d’attesa (Transeuropa), composta di due sezioni: la prima, più corposa, prende il titolo generale della raccolta e, come si evince dalle date poste in calce dallo stesso autore, è stata composta tra il 25.10.2020 e il 30.5.2021, forse proprio nei giorni cupi e difficili dell’epidemia, la seconda, intitolata Come le foglie, risale invece a due anni prima, tra l’ottobre e il novembre 2018.
Io mi soffermerò, nella mia analisi critica e interpretativa, sulla sezione Sala d’attesa (che occupa le pagine 7-37 della silloge) che, a mio parere, rappresenta l’autentica novità creativa del modo di far versi di Sergio D’Amaro.
Tra le raccolte poetiche che precedono Sala d’attesa, decisivo risulta, a mio parere, per i futuri destini espressivi del poeta Sergio D’Amaro, Il ponte di Heidelberg (1990), Premio Lerici, ripubblicato da Besa nel 2021, una cui selezione, col titolo The Bridge of Heidelberg (traduzione e nota critica di Cosma Siani) è stata contemporaneamente pubblicata da Gradiva Publications di New York. In quel viaggio mitteleuropeo, mentori Friedrich Hölderlin e Paul Celan, D’Amaro incominciava a sperimentare ritmi sincopati, versi lunghi di tradizione anglosassone (e non solo) e modalità di un ripensamento interiore, incunaboli di quella “narratività” interartistica che si connota come uno degli elementi essenziali che reggono il talento poetico di D’Amaro. In Beatles (2004) troviamo ancora il verso lungo e insieme sapienti contaminazioni che si piegavano a raccontare-creare, per immagini suggestive, gli anni della giovinezza e le vie della memoria, senza sostanziose dosi di disillusione metafisica e ideologica della storia (Salvatore Ritrovato), giostrando sui miti decisivi degli anni sessanta e settanta. In Fotografie (2008) il poeta dilatava i registri stilistici muovendosi tra ermetismo ed elegia, non senza scatti gnomici, alternando il tema antico quanto vitale dello scorrere del tempo e dell’umano desiderio di salvare qualcosa dal vortice dell’oblio (come nota acutamente Francesco Giuliani). Ancora più evidente, in Still Life (2019), la sottolineatura del significato esistenziale della natura umana (Rodolfo Di Biasio) silloge in cui D’Amaro accentua il suo interesse per un concetto estensivo della narratività che attraversa tutte le espressioni artistiche e procede, in quei versi, per accumulo, a indicare un’ombra che travolge e avvolge i personaggi della vita umana.
Facciamo un piccolo passo indietro e riavvolgiamo il nastro retrocedendo fino al 1986: Sergio D’Amaro pubblica con Lacaita Le caselle mancanti. Viaggio marginale nel Sud, con una mia lettera introduttiva. In quel piccolo mio contributo, avevo avanzato l’ipotesi che gli scritti contenuti nel volume di Lacaita già contenessero un tentativo di interpretare in modo differente la realtà del Mezzogiorno, prendendo le mosse da una incontestabile posizione periferica dal punto di vista geografico e culturale, procedendo, tuttavia, “oltre Eboli”, tramite sollecitazioni francofortesi e pasoliniane, verso una sollecitante tendenziosità nella quale già potevano leggersi i segni di una complessa (e non più rinviabile) ridefinizione della comunicazione poetica e narrativa del Sud, inserendola, come scriveva D’Amaro, “in un più vasto orizzonte di rapporti e di fenomeni”.
Se ripercorriamo tutte le precedenti raccolte poetiche di Sergio D’Amaro, dal 1990 al 2019 e torniamo ora a Sala d’attesa, possiamo agevolmente osservare come tutte le linee di scrittura finora considerate si compongano e si incontrino, ma complicandosi in tentante labirinticità. Nella prima sezione di Sala d’attesa, appunto quella che prende il suo titolo da quello indicato per l’intera raccolta, D’Amaro si muove dentro il ritmo cardiaco elementare e il meccanico pulsare di una volontà di poesia che attraversa lucidamente l’inesorabile scorrere del tempo, tracciando la “fotografia” di un “orologio” leviano che registra e impone istantanee, una sorta di terribile gioco del “circolo”, forse una “finestra che si apre” (p. 9), o anche un “vortice gagliardo” che trascina all’”implosione psichica”, mentre il pendolo langue e la matita s’impunta, producendo dissonanze e stridori, in versi franti che non riescono più a trovare la distensione narrativa delle precedenti raccolte. La pericolosità di una nostalgica rievocazione “di una giovinezza perduta” (p. 9) viene sospesa e dissolta subito in una “filosofica” meditazione che conduce alla perplessità immobile di un circolo, mentre si rincorrono le immagini del tempo che si sovrappongono, negandola, anche alla luminosità di un sole “fantasma accaldato / di un’estate finita nel pozzo” (p. 10). Potremmo continuare nell’operazione di prelievo sui versi, ma non faremmo che ripeterci: le date, nella loro solo apparente nudità e silenzio, non mentono mai e quell’ottobre 2020 segnala “un massacro diattimi spenti” dentro quella orrenda carcerazione che ci ha sorpresi e annichiliti tutti, costringendoci, come il poeta, a oscillare e tentennare “sulla soglia d’una bocca un po’ sdrucciola/rapinosa sontuosa confusa” (p. 15), ad osservare una “clessidra sommersa di polvere” (p. 15), “stanca di rivoltare le sue ceneri” (p. 15), addirittura spingendoci ad affrettare l’ora del sonno che potrà forse regalarci un “sogno”, perché “non sai cosa prendere/ del giorno che muore” (p. 13).
E così il verso si piega a raccontarci la solitudine di un mondo fatto di allarmi aerei, di piazze e vie vuote, di gente sola “piegata alla paura della morte” (p. 12), di cuori serrati, di conti che non tornano e di sillabe che riconducono il poeta all’accidiosa oscillazione dell’attesa. In una pagina densa di echi e di rinvii, D’Amaro evoca la propria storia iconica, le tele di Hopper, i romanzi di Buzzati e il sorriso metafisico di Beckett (p. 18), e fa precipitare tutti questi segnali verso “l’attesa”, divisa tra “speranza/ oppure timore del nulla” (p. 18) spasimo e ansia perenne nel poco senso di giorni muti e afoni. il prelievo potrebbe continuare, ma i segnali fin qui raccolti, a mio parere,potrebbero solo complicarsi e moltiplicarsi, coinvolgendo Proust e Boldini nella ricerca di una “sospensione del tempo” (p. 23), ricordi ginnasiali, “sillabe quasi liquefatte” (p. 24).
Si impone qui, nelle sequenze finali di Sala d’attesa l’immagine del treno, perfettamente coerente, semanticamente, col titolo della sezione, in una stazione dell’anima in cui l’attendere si coniuga col marciare e col correre via in una “sete di sfide” e di “orologi ormai finiti “(p. 33). Il buio alle spalle e la luce sul fondo sono le quinte su cui si aprono “pensieri ancora avvolti di paura”nella “mente ancora ingombra dell’angoscia” (p. 33) che non impediscono, tuttavia, di riprendere vecchi progetti nell’ora degli aquiloni (p. 34) e delle calde speranze, per fragili che siano, avvolte nel sapore fiabesco del passato.
Ed è proprio “l’ora degli aquiloni” (p. 34) a suscitare, nei versi finali l’immagine del treno, ma un treno che presto si trasforma in una fantasia linguistica anglosassone, un ritmo incalzante, cinematografico che evoca, però, contestualmente, ricordi del passato e della civiltà contadina, dell’infanzia. Eppure, il moto impresso ormai non può più essere fermato, e, al di là delle stazioni, sprofonda “nel vuoto einsteiniano/ nel ventre del moto browniano” (pp. 36-7).
E allora la “sala d’attesa” dell’intitolazione generale della silloge si chiarisce come la complessa macchina “narrativa” di una volontà di poesia colta e plurilinguistica che gioca a ingannare il tempo (l’orologio “leviano” di cui ho parlato prima) e a rinviare quel “treno” che non è più possibile, ormai, arrestare: così la poesia, come sempre accade nei versi di Sergio D’Amaro, ma con scansioni differenti dal 1990 ad oggi, attraversando ponti e fotografie, caselle mancanti e cartoline garganiche, canti del tavoliere e passati destini, si accampa come strumento indispensabile che sa decifrare sogni e segreti, memorie e luoghi, restituendone ambiguità e misteri.
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